mercoledì 30 novembre 2011

Senza fede non si fa l’Europa, di Marco Bellizi


Incontro del Consiglio d’Europa sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale

Senza l’aiuto della religione non si costruisce l’Europa. Specialmente in un contesto sempre più multiculturale, dove i valori comuni, se relativizzati, rischiano di essere svuotati di contenuto e di autorevolezza. È sulla base di queste considerazioni che arriva l’appello a sostenere il progetto di una piattaforma stabile di dialogo fra il Consiglio d’Europa e i rappresentanti delle religioni, dei gruppi non confessionali e dei media.

 La richiesta è arrivata al termine dell’incontro sul «Ruolo dei media nella promozione del dialogo interculturale, della tolleranza e della mutua comprensione: libertà d’espressione dei media e rispetto della diversità culturale e religiosa», organizzato in Lussemburgo dallo stesso Consiglio d’Europa, al quale hanno partecipato leader religiosi, rappresentanti di organizzazioni internazionali e professionisti dell’informazione. È stata in particolare Anne Brasseur, dell’assemblea parlamentare dello stesso organismo, a proporre di dare seguito concreto alla raccomandazione già posta all’attenzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Viene dunque riconosciuta l’urgenza di ascoltare quello che le comunità religiose presenti nel continente hanno da dire riguardo al rispetto reciproco e a una fruttuosa convivenza. Un campo nel quale i rappresentanti religiosi, principalmente cristiani, e cattolici in particolare, vantano una riconosciutaexpertise, costruita nel corso di decenni di confronto ecumenico e fra le diverse fedi. «C’è una nuova attenzione — spiega monsignor Aldo Giordano, Osservatore Permanente presso il Consiglio d’Europa — e una maggiore coscienza del ruolo delle religioni. La prospettiva è corretta, anche perché qui non si tratta di sostituirsi al dialogo interreligioso, che ovviamente viene condotto da tempo in altre sedi, né si vogliono affrontare temi teologici. Si tratta di riconoscere che la religione è determinante per l’identità culturale che, in Europa, è un’identità evidentemente cristiana. Del resto è proprio in virtù di questa identità, naturalmente portata ad aprirsi all’altro, che il continente cerca di affrontare nella giusta maniera le nuove sfide che gli si pongono di fronte». Fra queste c’è il tema dell’educazione. Di quanti operano nel mondo della comunicazione, ma anche di chi legge o ascolta le notizie. Nell’organizzare l’incontro in Lussemburgo il Consiglio d’Europa ha riconosciuto che il giornalismo tradizionale e i nuovi media hanno un ruolo cruciale nel favorire atteggiamenti tolleranti o meno rispetto alle diverse comunità religiose. In apparenza è una osservazione quasi scontata. Ma consente di affermare che le diversità oggettive e ineliminabili che esistono fra le fedi non possono essere sempre chiamate a pretesto per il sorgere di sentimenti di ostilità che spesso hanno altra natura: «Le religioni hanno molto da dire — osserva padre Duarte Nuno Queiroz de Barros da Cunha, segretario generale del Consiglio delle conferenza episcopali europee — nella costruzione di una comunità multiculturale. Esse sono interpellate dai media per contribuire a questa costruzione. Ma nello stesso tempo occorre che i media acquistino una maggiore consapevolezza quando raccontano la vita religiosa delle comunità». Stereotipi e sensazionalismi sono i pericoli più evidenti. Poi c’è la mancanza di competenza professionale, l’ignoranza che, ha sottolineato Anne Brasseur, «è il peggiore nemico della tolleranza». L’estremismo non è, purtroppo, un fatto nuovo nel continente. Oggi — ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, presentando l’incontro in Lussemburgo — «l’Europa si sta polarizzando, anche per gli effetti della crisi economica. Assistiamo al successo di partiti che fanno leva su questi sentimenti: la discriminazione nei confronti dei rom, l’antisemitismo, gli atteggiamenti ostili nei confronti dei musulmani. Credo che, per esempio, musulmani e non musulmani debbano conoscersi meglio. Va riconosciuto il grande contributo che l’islam ha dato anche alla cultura europea ma, allo stesso tempo, il ruolo del cristianesimo nella costruzione dell’identità dell’Europa».
Si tratta anche di condividere dei valori comuni, che non possono essere quelli influenzati dal contesto storico e culturale ma quelli che hanno carattere universale in quanto inerenti alla natura umana. Diritti fondamentali che — osserva padre Laurent Mazas, del Pontifico Consiglio della Cultura — «sono un patrimonio che l’Europa ha ereditato dal cristianesimo e che non hanno niente a che fare con l’evoluzione giuridica che oggi talvolta si pretende di accreditare». Nel momento di individuare una base comune di convivenza, dunque, i cattolici ricordano che i valori universali sono quelli che l’Europa deriva proprio dalla sua identità cristiana. Del resto, come è stato osservato, se si vogliono costruire ponti è proprio per non tagliare le montagne.

Lucio Magri, di Annalena Benini


Non può essere andata così, la socializzazione della morte non è una ricetta per l’aperitivo

Davanti alla volontà irrevocabile di morire non si può fare nulla, nemmeno se ci sono salute, parole, amici, figlie, una nipotina e bei ricordi. Nemmeno se un’amica più anziana e saggia prende l’aereo solo per dirgli: scuotiti, non farlo, vivi adesso e finché ci sei, e gli altri amici in coro pensano le stesse cose. Lucio Magri, uomo bellissimo, comunista con l’ossessione della perfezione (tutto doveva essere perfetto: una camicia, un uovo al tegamino, un pensiero) aveva da un po’ di tempo lo sguardo perso, gli occhi verdi di chi guarda ma non vede più il mondo.
Una brutta depressione, e nessuno in grado di convincerlo a curarsi, a prendere le medicine che servono, perché lui, diceva, aveva tutti i motivi per soffrire e non voleva soffrire di meno: la moglie, che era il suo faro e il suo collegamento con il mondo, era morta, e lui sentiva di non avere più una voce, un’opinione forte scolpita e vitale (anche le convinzioni sbagliatissime e dannose sono vitali: nella galleria fotografica su Lucio Magri c’è una foto che lo ritrae mentre legge il suo manifesto, e bisogna allargare un momento l’immagine per scoprire quel titolo assurdo e cubitale: “E anche a Primavalle sono stati i fascisti”). Magri voleva morire, e mentre non c’era nessuna autorevolezza affettiva capace di fargli cambiare idea, c’è un’associazione in grado di organizzare con efficienza la fine. Ci sono in Svizzera le roulotte della morte: dove preferisce che le facciano l’iniezione? Vista lago? O vuole guardare le montagne? Forse un boschetto è meglio? Vengono i brividi a immaginarlo, e anche se si deve comprendere la determinazione finale di morte, di quiete, ci si addolora sempre per la vita. Ma vengono i brividi, molto di più, a leggere su Repubblica una cosa che è una specie di reportage esclusivo della morte, la cerimonia degli addii senza l’addio, con la descrizione degli amici che bevono il Martini nel bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone (come piaceva a lui), e aspettano la telefonata che comunichi il suicidio annunciato, seduti sui divani bianchi, il tavolo di legno chiaro, il parquet, i libri sulla scrivania, e la cameriera sudamericana in cucina che chiede se si vogliono fermare a colazione. Non può essere andata davvero così, con quel gelo mondano e pago. “Il grande freddo” era un’altra cosa, “Le invasioni barbariche” anche.
La socializzazione della morte è privatissima, lacrimosa, importante, non può essere trasformata in un servizio per una rivista di arredamento, in una ricetta per l’aperitivo. Lucio Magri aveva vietato qualunque funerale o commemorazione, perché “si dicono sempre parole molto elogiative sulla persona scomparsa”. Non gli piaceva, non voleva sembrare mondano, vanesio, un rivoluzionario da salotto come spesso l’avevano ritratto (perché era bello, elegante, cucinava cose raffinate, voleva perfezioni raffinate). E allora adesso dovrebbe infuriarsi, per avere ricevuto non una commemorazione, non un funerale con il vento o il sole e la pioggia, i bambini che si rincorrono e gli amici che piangono e poi ridono e si consolano, ma la mondanizzazione estrema e cinica dei suoi ultimi istanti raccontati da chi non c’era, mentre lui era in Svizzera forse dentro una roulotte a guardare il panorama che si era scelto per ultimo.

martedì 29 novembre 2011

Non ti ricordi quando mi dicevi, di Leonardo Giustinian



Non ti ricordi quando mi dicevi
Che tu m’amavi sì perfettamente?
Se stavi un giorno che non me vedevi,
con gli occhi mi cercavi fra la gente,
e risguardando s’ tu non mi vedevi,
dentro de lo tuo cuor stavi dolente.
E mo’ mi vedi, e par non mi cognosci,
come tuo servo stato mai non fossi.

La musica Gregoriana

Con tale termine ci si riferisce alla musica in lingua latina creata nel periodo che va dai primi anni di diffusione del Cristianesimo sino all'anno 1000 circa.

Il nome deriva dal Benedettino Gregorio Magno (papa dal 590 al 604) il quale, per dare maggiore unità alla chiesa si preoccupò di fondere i numerosi canti di preghiere che venivano usati nei centri già raggiunti dal Cristianesimo. Papa Gregorio impose ufficialmente il canto gregoriano in tutte le province del Sacro Romano Impero che si diffuse così nelle abbazie e nei conventi.
Solo Milano ebbe il permesso di continuare ad eseguire i canti ambrosiani, cioè quelli voluti da S. Ambrogio, vescovo di questa città nel IV sec.

Il canto gregoriano non aveva finalità artistica, ma il solo scopo era quello di unire i fedeli nella preghiera. Il canto gregoriano utilizza i ritmi del respiro naturale per creare un senso di riposante vastità.

E’ eccellente per lo studio in tranquillità e per la meditazione, e può ridurre lo stress.



http://www.musicotherapy.it/corpo.asp?L=0&C=0&R=1

«Emissioni nella norma» L'Ilva si erge a modello, di Cesare Bechis


TARANTO

Dal 2008 diossina diminuita del 98 per cento

Presentato il terzo rapporto «Ambiente e sicurezza»

L'incontro
L'incontro
TARANTO - Taranto non è la città più inquinata d’Italia e la fabbrica dell’acciaio Ilva può addirittura diventare un modello di eccellenza. Il rovesciamento totale dei ruoli e delle imputazioni a carico della Riva Fire è stato sottolineato ieri dall’ingegner Adolfo Buffo, direttore della qualità, sicurezza ed ecologia dello stabilimento tarantino, illustrando i dati del terzo rapporto su «Ambiente e sicurezza» di fronte a una platea di amministratori, tecnici, autorità, sindacalisti e lavoratori. A Taranto l’azionista Riva ha speso in quindici anni 1,12 miliardi per rendere gli impianti sempre più compatibili con l’ambiente. Sono calate le emissioni di diossina, benzo(a)pirene e degli altri inquinanti; le polveri sottili sono risultate nei limiti, i consumi di energia e di acqua ridotti del 40 per cento, gli incidenti drasticamente diminuiti. Statistiche eloquenti sulla «continuità» e sullo sforzo con i quali l’azienda lavora per rendere gli impianti il meno nocivi possibile alla salute collettiva e all’incolumità dei dipendenti, tanto da aver ottenuto a luglio l’autorizzazione integrata ambientale (Aia) e da aver superato la fase di verifica per la certificazione «volontaria» Emas ai fini del miglioramento delle prestazioni ambientali. «Per ottenerla — ha auspicato il vice presidente Fabio Riva — è necessario che quanto prima l’Arpa faccia il lavoro di verifica. Posso dire che per la sicurezza e per la so«stenibilità siamo al livello dei migliori impianti siderurgici mondiali». Buffo ha elencato alcuni dati, non tutti prodotti in casa. Per le polveri sottili, nelle classifiche di Legambiente Taranto è stata tra le 30 città italiane a più basso livello di pm10 con una media 2010 di 32,4 microgrammi per metro cubo delle centraline del quartiere Tamburi a ridosso dello stabilimento. Per la diossina, le emissioni dal 2008 sono diminuite del 98 per cento.
L’ultimo campionamento a sorpresa effettuato dall’Arpa, a metà novembre, ha dato una media di 0,2 nanogrammi per metro cubo, inferiore al limite di 0,4 fissato dalla legge regionale. I 41 campionamenti esibiti dall’Ilva forniscono un valore medio di 0,37, quindi entro la legge, ma c’è da dire che i tre campionamenti fatti da Arpa danno un livello medio di emissioni superiore al limite di legge. L’assessore Lorenzo Nicastro ha detto che attenderà la relazione dell’agenzia, entro fine anno, per valutare il da farsi. Arpa potrebbe effettuare altre campagne di rilevamento (almeno tre, dice il regolamento regionale) fino ad ottenere una media inferiore allo 0,4. L’altro elemento fortemente inquinante tenuto sotto osservazione è stato il benzo(a)pirene. Giorgio Assennato, direttore generale dell’Arpa, ha fornito il dato medio di 0,8 nanogrammi nel 2011, inferiore al limite di un nanogrammo fissato dalla legge. Quanto agli infortuni, negli ultimi due anni nessun incidente grave e riduzione netta complessiva grazie a un proficuo intervento sulla formazione. Nicastro ha apprezzato «l’approccio positivo del presidente Riva che ha definito l’Aia una garanzia di regole e le prescrizioni una nuova sfida da vincere». E auspica una fase 2.0 nel rapporto tra economia ed ambiente, il passaggio cioè dalla tutela ambientale e dal controllo delle emissioni alla riduzione dell’impatto della fabbrica e delle risorse prese dall’ambiente. «L’azienda deve diventare sempre di più una risorsa per il territorio e non essere più percepita come un rischio». E l’arcivescovo di Taranto, Benigno Luigi Papa, ha cercato di contemperare tutte le esigenze, ecumenicamente: «Non c’è nulla di più nocivo che creare un clima di conflittualità permanente. Serve un patto di alleanza tra città, provincia e azienda per un futuro roseo per tutti».

lunedì 28 novembre 2011

Prigionieri europei del dogma tedesco, di Sergio Romano

LA LINEA DURA DELLA MERKEL

Non vado alla ricerca di attenuanti per la lentezza e la riluttanza con cui la Germania ha affrontato sin dall'inizio la crisi dell'euro. Ma dobbiamo almeno cercare di comprendere perché esista ormai una questione tedesca.

Dai primi decenni dell'Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918.

Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s'impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell'arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l'arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l'opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato.

Ma anche nel terzo atto, come nei due precedenti, questa virtù nasconde un rischio. Una Germania priva di certezze diventa inquieta e nervosa, se non addirittura nevrotica. Correggere il programma lungo la strada per tenere conto di eventi imprevisti è quindi molto più difficile per i tedeschi di quanto non sia per i loro maggiori partner europei. È accaduto durante le due grandi guerre mondiali e sta accadendo purtroppo anche durante la guerra dell'euro. I predecessori di Gerhard Schröder e Angela Merkel sarebbero forse riusciti a modificare il piano in funzione della realtà. Ma i vecchi cancellieri, da Konrad Adenauer a Helmut Kohl, erano convinti che al loro Paese occorresse, insieme al successo economico, una forte integrazione europea.

Per Merkel, come per Schröder, l'Europa è una eredità a cui non è né intellettualmente né sentimentalmente legata. Questo non significa che non abbia capito la gravità della crisi. Dopo la sua resistenza iniziale, il cancelliere ha cercato di spiegare ai suoi concittadini che il salvataggio dei Paesi a rischio è un obbligo a cui la Germania, nel suo stesso interesse, non può sottrarsi. Ma non ha mai osato mettere in discussione gli assiomi che fanno parte del dogma economico tedesco, dal ruolo della Banca centrale europea agli eurobond. Lo farà, prima o dopo, ma rischia di farlo troppo tardi. Forse Mario Monti può spiegarglielo meglio di quanto non possa e sappia fare Nicolas Sarkozy.

Come d'autunno sugli alberi le foglie, Mr Osborne


Ha un fascino tutto suo la definizione inglese con cui George Osborne si gioca il futuro politico suo, del suo partito e del suo paese. L’“autumn statement” con cui il cancelliere dello scacchiere britannico definirà i prossimi passi del piano economico è un condensato di ideologia politica ed economica senza pari nel Vecchio continente (più banalmente si tratta del “Pre-Budget Report”, ma l’autunno di questi tempi  è significativo). Secondo tutti gli analisti, con questo annuncio Osborne farà capire di che pasta è fatta, se vede tutto come un gioco politico, come sostiene il Financial Times, o se ha anche una prospettiva economica d’ampio respiro, come si auguranoi “Cameroons” come Tim Montgomerie. Quel che è stato fatto finora non ha funzionato granché se anche la Gran Bretagna, secondo l’Ocse, sarà tecnicamente in recessione dall’anno prossimo, come i brutti anatroccoli del sud Europa.

L’enfasi di Osborne sarà su occupazione e crescita, con un piano contro la disoccupazione giovanile, il sostegno alle imprese più piccole e un addolcimento delle politiche ai danni delle middle class (i tagli): cinque miliardi di sterline di tagli da investire in crescita per salvare il paese. La domanda senza risposta è sempre la solita: funzionerà? Per l’Economist la recessione è inevitabile, mentre la guerra sociale è già pronta a scoppiare fin da mercoledìcon un megasciopero antiausterità. In mezzo ci sono giochetti da coalizione: i Lib-Dem che vogliono fare la parte dei buoni, i conservatori che non ci stanno a finire di nuovo con l’etichetta di “nasty party”. Ma senza crescita economica, i Lib-dem avranno poco di cui vantarsi alle urne, e lo stesso vale per Osborne che, pur non avendo alcun patto della granita da violare, si sente già il successore naturale del premier, David Cameron. Sul Labour e gli scioperi e l’opposizione basta leggere Boris Johnson, sindaco di Londra, che sulla successione a Cameron ha qualcosa da dire pure lui (anche se da ultimo i cuori di Tankbattono per il fratello di Boris, Jo, che per anni ha curato la Lex Column del Financial Times, e che è sposato con Amelia Gentleman, una coppia da tenere d’occhio – anche se da ultimo le vicende tra fratelli nel Regno Unito non sono finite benissimo).

domenica 27 novembre 2011

Tesoro, mi si è ristretta la sovranità, di Lanfranco Pace


Come salvarsi da una democrazia sospesa

A scuola, dove si insegnano i buoni principi, ci hanno detto che sovranità è, con popolo e territorio, il trittico su cui riposa l’esistenza di uno stato. Che la sovranità è forza che unifica la comunità politica ed è tale proprio perché non ammette interruzioni.

Balle, tuona Angelo Panebianco, è un vecchio mito un ideal tipo per giuristi internazionali; la realtà è altra, viviamo di interdipendenze, fin dai tempi della pace di Westphalia. Ha ragione il professore. La realtà e la storia ci hanno insegnato che qualcosa bisogna concederla, anche nel proprio interesse. Essere protetti negli anni della guerra fredda ha avuto un prezzo ed era giusto pagarlo. Cercare di essere più forti nel mondo globale uscito dal crollo dell’ordine di Yalta, anche. Così liberamente abbiamo accettato di trasferire ulteriori elementi di sovranità ad autorità sopranazionali e ci siamo anche convinti, culturalmente, che su questa strada saremmo dovuti andare ancora più avanti. Abbiamo firmato trattati. Abbiamo delegato l’uso della spada. Poi quello della moneta: il primo nome che compare nel trattato costitutivo dell’Unione europea è quello di Sua Maestà il Re dei Belgi.

Ma in nessuna pagina è riconosciuto il diritto a mettere bocca nel funzionamento della politica e addirittura nella selezione dei gruppi dirigenti dei paesi membri. Questo è accaduto nella storia di paesi annessi con la forza, di governi quisling, di stati satelliti dell’impero sovietico. Mai in quella delle democrazie.
Siamo di fronte a un modello costituzionale di nuovo tipo. Per i precedenti si dovrebbero spulciare le pagine dei regimi commissariali della Roma repubblicana o le dottrine medioevali dell’interregno, dice il professore Alessandro Campi.
L’Italia è di fatto laboratorio politico dove si sperimenta la possibilità futura che i governi nazionali possono anche essere concepiti, fabbricati altrove e a tavolino. Chi pensava di aver aderito a una liberà comunità di stati sovrani scopre di aver aderito a un metodo e a una cultura che dice che la sovranità va e viene. Stupisce la pochezza degli argomenti di chi li accetta e li sostiene. La litania sulla crisi, sull’urgenza, sul dovere di fare in fretta, come se gli altri paesi e i leader non fossero da Obama in giù in braghe di tela. Oppure quel voler scacciare l’inquietudine, ribadendo che si è pur sempre nella norma e nel rispetto delle regole e non è come se fossimo arrivati alla scadenza della legislatura avessimo dovuto votare e qualcuno ci avesse chiesto di non farlo per non alimentare incertezza e instabilità che ecciterebbero i mercati. Sono questi gli argomenti usati dai Casini, Buttiglione e Rutelli e terzopolisti in genere: credono davvero che aprendo fra qualche mese la fase 2 e imbarcando al  governo qualche uomo di partito, magari gli stessi segretari, la politica ritroverà la faccia?

Cancellare la devastante impressione
 che in Grecia, paese che pure è sotto tutela, voteranno a febbraio, in Spagna si è addirittura votato in piena tempesta, mentre in Italia no, sarà impresa non facile.

Secondo Panebianco da noi non si vota e negli altri paesi sì, perché l’instabilità e l’incertezza di prospettive è nel dna del bicameralismo perfetto, che consente a entrambe le Camere di poter sfiduciare un governo. Eppure persino i teorici della sovranità assoluta dicono che quando la tempesta mette a rischio la nave e i capitani e i piloti sono tutti egualmente stanchi, proprio allora è necessario che i passeggeri stessi intervengano.
E’ vero anche, dice Campi, che contro i Berlusocni è scattata una crisi di rigetto, che siamo un paese particolarmente sfibrato e che da sempre c’è chi spera nel vincolo esterno per cambiare quello che non riusciamo a cambiare da soli. Una sorta di predisposizione genetica al partito che viene dall’estero. E’ vero anche che la sovranità l’abbiamo delegata e poi ce ne siamo disinteressati, che benché paese fondatore in Europa ci siamo sempre stati male, raramente abbiamo saputo fare azione efficace di lobby, in seno alla burocrazia comunitaria la Spagna conta più di noi, a Strasburgo abbiamo spesso mandato gli scarti della politica nazionale o soubrette in cerca di palcoscenico. E in anni molto, molto lontani quando accadde di aver un presidente italiano della Commissione (Franco Maria Malfatti), questi resse sì e no sei mesi prima di dimettersi e tornare alla politica nell’amata Umbria.

Ma proprio nei periodi di crisi dimettersi dalla politica è l’unico modo per allontanare la soluzione della crisi stessa. Perdere ancora un po’ sovranità nazionale anziché spingere perché una  nuova legittimità democratica a scala del continente si sottoponga al lavacro del suffragio universale, significa di fatto inchinarsi ai mercanti, a quel sistema finanziario che a torto o a ragione è visto sempre più la causa principale del disastro. Non è detto che forme di democrazia elettiva europee funzionino, spiega Panebianco, anzi sarebbe un dilemma insolubile: più si allarga l’area territoriale di governo, più si innalzano le sue responsabilità, più si allontana dai cittadini elettori e più i cittadini elettori vorrebbero che si tornasse la governo nazionale. Un circolo vizioso insomma, male con l’Europa e male senza l’Europa. Almeno provarci, però. Ha scritto Habermas che di fronte a questi problemi ci si aspetterebbe che i politici senza più rinvii mettessero sul tavolo il significato storico del progetto europeo, in altri termini la relazione fra costi a breve e utilità reale. Invece si paralizzano, preferiscono i “sondaggi d’opinione alla potenza persuasiva dei buoni argomenti”, con la vecchia scusa che non esiste il demos, il popolo europeo. Ma se è così, allora davvero ci toccherà prendere atto di un disastro che non sarà solo della moneta ma di tutto l’edifico. Una constatazione di fallimento che solo la politica piena e legittimata dal suffragio universale può fare.

sabato 26 novembre 2011

La sfida dell’ateismo contemporaneo, di Adriano Pessina


Nello spazio pubblico della cultura

Che fine ha fatto l’ateismo contemporaneo? Se fino a qualche anno fa, complice la svolta filosofica moderna che rendeva dogmaticamente impossibile, per definizione, il discorso dedicato alle prove dell’esistenza di Dio, l’ateismo si presentava in primo luogo dentro lo spazio pragmatico dell’irreligiosità e dell’indifferenza, oggi assistiamo a una duplice svolta.

La prima svolta riguarda la ripresa dell’ateismo teoretico alimentato dal riferimento al discorso scientifico. Dopo le stagioni classiche dei maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), oggi è la volta del neodarwinismo e delle neuroscienze a fornire argomenti affinché si creda che Dio — che alcuni autori preferiscono scrivere con la minuscola — non esiste. La seconda, più interessante, forse, è quella che si premura di affermare che l’ateismo può costituire una nuova forma di moralità. Anche in questo caso si potrebbero trovare degli antecedenti storici, nell’epoca moderna, citando il dibattito tra Pascal e libertinismo erudito, o pensando al celebre pamphlet di Sartre sull’ateismo come umanesimo.

La nuova apologetica dell’ateismo privilegia il riferimento alle scienze empiriche per giustificare la tesi per cui senza Dio si può vivere moralmente bene e, anzi, si può e si deve prendere nelle proprie mani il futuro di un’evoluzione che finora è stata, per così dire, cieca, ma che ora potrà finalmente essere governata dal progetto umano emancipato dalle pastoie di divieti ancestrali formulati sotto l’autorità divina. Il nuovo ateismo militante si pone così al servizio delle biotecnologie, sostituendo l’antica formula della filosofia ancilla theologiae con quella dell’ateismo come ancilla technologiae.

Questo mutamento di prospettiva non va affatto sottovalutato. Da una parte, depurato dai toni polemici e dalle sfumature risentite e spesso condizionate da una cattiva comprensione della questione di Dio come Creatore (che andrebbe pensato come Fondamento dell’ora e non soltanto come iniziatore del passato), l’ateismo contemporaneo manifesta una implicita inquietudine rispetto al nuovo potere dell’uomo. Come leggere, infatti, lo sforzo di rassicurare l’uomo nella sua impresa autoreferenziale di costruzione di nuove possibilità di manipolazione della vita (e non soltanto della salute) dell’uomo se non nei termini di un’avvertita consapevolezza della posta in gioco, cioè del significato ultimo dell’esistenza e del senso stesso dell’intera realtà?

Mai come oggi il potere dell’uomo su di sé e sul reale è in grado di farci percepire l’esigenza di trovare criteri etici che non siano puramente arbitrari e soggettivi: e l’ateismo militante vorrebbe porsi proprio come questo orizzonte ultimo di senso, in grado di giustificare il discorso etico su una vera e propria metafisica dell’immanenza e perciò della negazione di Dio (con la maiuscola, perché è fin troppo facile liberarsi di un “dio” scritto con la minuscola).

In questo senso, l’ateismo costituisce una potente sollecitazione al credente, affinché ritorni a dire le ragioni di un credere che è capace di ridare di nuovo forma a un sapere sull’esistenza di Dio in grado di plasmare il senso dell’ethos umano, per troppo tempo coltivato dentro un’autonomia incapace di cogliere la portata epocale della sfida pratica e teorica che l’uomo stesso ha plasmato con le sue mani. Rispetto al tentativo, per certi versi classico, di rassicurazione del rapporto positivo che può intercorrere tra scienza e fede, operato dal versante apologetico del credere, l’apologia dell’ateismo richiede un più essenziale radicamento nella questione delle verità ultime perché pone in luce come il luogo originario del dibattito sia oltre le scienze stesse, il loro operare e interpretare il mondo: esso si colloca, originariamente, dentro la domanda che raccorda il senso della storia e il fondamento ultimo della realtà e perciò della vita.

Agli argomenti della nuova apologetica dell’ateismo, che di fatto è tutt’altro che post-metafisica, si può e si deve rispondere, confidando nelle grandi risorse di cui proprio la ragione umana, salvata dall’evento dell’Incarnazione, dispone. Dopo il periodo del pensiero debole, delle identità fluide, si ripropone, nello spazio pubblico della cultura, la questione della serietà dell’esistenza nel suo necessario radicarsi con o contro Dio.


venerdì 25 novembre 2011

Istantanea di un mostro: spread, di Guido Ceronetti

Più vorticoso del gorgo di Lofoden di Edgar Poe, più schiacciante dell’Incubo di Füssli: SPREAD

Questa parola di una lingua che sta a poco a poco prepotentemente scacciando la nostra (e pagheremo caro il rifiuto di difenderla dallo stupro), nel suo idioma d’origine significa innocentemente diffusione , espansione e altre cose. A stravolgerla è stato il gergo della Borsa americana: e qui il mio rifiuto di tuffarmi in questo ignoto dalla brutta grinta mi impedisce di inseguirla nei suoi significati, che inquietano e spaventano la povera e pulita gente alla quale desidero fino all’ultimo appartenere. Non mi occupo di Spread, ma di destino umano.

La vecchiaia non è una meringa. È più indigesta dell’olio di merluzzo. Ma, come l’olio di merluzzo contiene una vitamina delle più preziose e rare: ti toglie una quantità di preoccupazioni del domani, ti fa sorgere spontanea l’adesione alla massima evangelica: «Basti a ogni giorno il suo male». Il male di ogni giorno ride di quel che sarà lo Spread del giorno dopo e di quel che sarà in un inesistente domani il futuro pensionistico di figli spesso ancora in mostra sul passeggino. Sciaguratamente, l’ossessione di una Economia che non ha il minimo aggancio col significato della sua origine greca («legge della casa»), che non entra nelle case, che è una mera astrazione, una ipotesi contraddittoria e sposta capitali enormi attraverso onde improbabili immaginate al di là dell’orbita - capitali che sono vuoto su vuoto, pur facendo impazzire gli Stati, le più potenti come le più franose nazioni. Ma i calcoli sono fatti da macchine onnipotenti, che danno vita a statistiche che pochi soltanto ritengono di saper interpretare. Ma le percentuali, che ci vengono presentate inoppugnabili, che oracoli sono? Non sono povere Pizie senza il Dio, Pizie da marciapiedi?

Mi capita di ascoltare, a tavola, tra mezzogiorno e l’una, la trasmissione dell’ottima Radio Ventiquattro Salvadanaio , che mentre annaspo in un convito di solitudine, mi procura la viva felicità di sperimentare come tutto, dico tutto, senza residui, di quella trasmissione, che tratta temi economici ravvicinati all’odierno modo di esistere, mi sia meravigliosamente indifferente. La conduttrice Debora Rosciani domina le materie astruse di cui si occupa con una fantastica disinvoltura di competente che non ne lascia fuori neppure una briciola. Non l’ho mai vista, ma la sua voce m’incanta, mi calma anche quando riflette violente perturbazioni al di là degli spiccioli. Per lei Spread non ha segreti, lo srotola come un tappeto davanti a chissà quanti ascolti, e io non ci leggo che lo Havèl havalìm del mio vecchio amico biblico Qohélet: «fumo di fumi, tutto non è che fumo e vento che ha fame».

Mi appassionano le voci ansiose del pubblico telefonante e mailizzante: «Devo investire in Australia o in Uzbekistan?» - «Ho una casa a Berlino: la scambio a Milano con un garage?». Il cuore delle ansie sono le banche, ma Debora distribuisce i suoi salvagenti da tutte le sponde: viaggi a basso costo, riscaldamenti, liti di condominio (il più tristo modo di abitare: l’inferno sono gli altri: fuggite il condominio e gli amministratori - nota mia), supermercati, saldi stagionali, rimborsi, tasse. Dalle domande assente cronico è la perplessità circa pezzi della terra che ci nutre, passaggi di poderi, uso e abuso dell’agro, dove chi ci sta ignora se il successore sarà un figlio o un costruttore-distruttore della vita. Anche questo è significativo: il denaro non ha altro fine che il denaro: le ricette Rosciani, o di ogni altro esperto, si fermano lì, dove l’infinito Nulla ti agguanta.

Immune dal comprendere Spread (meglio un etologo di un filologo) devo tuttavia confessare che un certo allarme mi serpeggia per l’euro. Incoraggerei chiunque lavori per il suo mantenimento, ma non ne ignoro l’intrinseca debolezza, l’esposizione ai raggiri, alle truffe mondiali, e la sinistra inclinazione a gonfiarsi. Ricordo la prima percezione di imbroglio rassodabile nell’Italia (1999? 2000?) appena entrata nella Zona Euro, ascoltando un imbonitore che il giorno prima svendeva tutto a mille lire, battere la sua merce a un euro soltanto uno! uno! uno! e la gente cascarci, felice di spendere uno invece di mille... Già, ma un euro non corrispondeva a mille - ma a quasi duemila. Il gioco era fatto.

Oggi l’euro è forte a Babilonia e a Samarcanda, e addirittura a Washington, a Wall Street: ma quanto vale a Roma, a Parigi? Quanti ne devi tirar fuori per un kg di cavolfiore o una tariffa medica non mutuata? Nell’esistenza minuta e sminuzzabile, l’euro è debole. Con un euro fai l’elemosina minima a un suonatore benemerito di strada, ma se vuoi vederlo sorriderti torci il collo alla tirchieria e con delicatezza deponi un cinque nel cappello.

L’euro è debole nel cavolfiore perché l’Europa unionista è partita dalla fine (la moneta) e non dal principio classico, l’urgenza strategica. Dall’ano e non dalla testa. Era il buon momento quando il progetto di una comunità di difesa andò in frantumi per refrattarietà idiote nazionali: la CED sarebbe stata una buona partenza. Cesare non romanizzò le Gallie con i sesterzi ma con le legioni; né gli Stati Uniti cominciano col dollaro, né i cantoni svizzeri furono tenuti a battesimo dai banchieri ginevrini.



http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9479

Travaglio, i malacarne e la proprietà transitiva

Premesso che per Marco Travaglio chi difende un malacarne è tendenzialmente un malacarne anch’egli. Messo agli atti che, sempre per Travaglio, Renato Schifani e un sacco di altri siciliani sono più o meno dei malacarne. Aggiunto che per Marco Travaglio il nuovo presidente dell’Autorità per la concorrenza, Giovanni Pitruzzella, non è l’uomo giusto al posto giusto in quanto ex avvocato di fiducia del presidente del Senato Renato Schifani. Registrato infine che per Antonio Ingroia (il pm che ha promosso il pataccaro Ciancimino Jr.) il Pitruzzella medesimo “è stato mio legale nel ricorso contro alcuni miei colleghi; lo conosco da molti anni, avendone stima come professionista serio e profondo conoscitore del diritto costituzionale e amministrativo”, ci assilla la seguente domanda: che cosa starà pensando Marco Travaglio di Antonio Ingroia?


http://www.ilfoglio.it/singole/68

Fate con calma, di Stefano Di Michele


Il titolo con cui abbiamo deciso di aprire la prima pagina del Sole 24 Ore di oggi l’ho rubato a una canzone di Angelo Branduardi (quando c’era Riotta qui si sentiva solo Bob Dylan: cambiato il direttore, cambiato disco) che fa: “State calmi adesso bambini / facciamo un po’ di silenzio…”. Ecco, l’invito che mi sento di rivolgere al Professor Senatore Presidente Monti e al suo esecutivo tutto è proprio questo: “State calmi adesso ministri…”. E’ la calma il fondamento di ogni rinascita, è la calma che sola potrà convincere gli investitori della solidità e affidabilità dei titoli sovrani italiani, è la calma la via maestra sempre. “Calma e gesso”, direbbero i cari consociati dell’Associazione nazionale costruttori. “Calma e ansiolitici”, hanno raccomandato durante la loro ultima assemblea gli amici di Farmindustria. E’ il mondo dell’impresa tutta che chiede al governo di fare con calma, di agire con imperturbabilità, di muoversi con placidità.
Certo di non infrangere alcuna riservatezza istituzionale, vorrei rivelare il senso di una mia conversazione con il Capo dello Stato, quando concordammo che per imbrigliare lo spread (il cui ulteriore differenziale, si rammenti, aggrava i conti di altri 3-4 miliardi) la cosa migliore è agire come si fa per acchiappare il capitone a Napoli durante le feste natalizie: girargli appunto intorno con calma, guardarlo senza ansia, scrutarlo manifestando scarso interesse. E di colpo, quando la bestia si è completamente rilassata, afferrarla a tradimento. E a quel punto tenerla tra le mani con calma fermezza, perché nell’agitazione potrebbe scivolare via, e scappare sotto il divano o dietro la consolle dell’ingresso. E lo spread, viscido non meno del capitone, guizza, scivola, sguscia: lo prendi a 472, ti sfugge, e quando lo recuperi da sotto il letto sta a 552. Né col capitone né con lo spread, caro Monti, si scherza. Perciò, agire ma con calma – far riposare per un giorno il loden, passare dal barbiere, portare il labrador al parco anziché Sarkozy a pranzo. Le crisi finanziarie in genere, questa specifica che riguarda l’Italia in particolare, esigono un segnale forte di discontinuità che permetta di ripartire davvero.
E il segnale forte che tutti si aspettano – i cittadini, i mercati, Ballarò – è quello della calma. Fosse possibile fare una battuta, nella situazione in cui ci troviamo, con il rischio che Europa e Fondo Monetario ci aggrediscano, meglio ancora lanciare uno slogan, questo portrebbe essere: Bot e Bond piuttosto che boom! E’ la calma la virtù dei forti – e pure, mi corre l’obbligo dirlo, la virtù di chi oggi forte non è. Niente, con l’insensatezza di chi – mediaticamente come politicamente – esorta a fare presto piuttosto che a fare bene, potremo mai ottenere.
A tal proposito, fornisce un’illuminante spiegazione (in una conversazione esclusiva con il nostro Stefano Folli a pagina due), la Signora ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che dopo essersi espressa sia a favore della Roma che di Totti (segno, vista l’attuale classifica, di calma risoluta e di assenza di fretta), ha voluto consegnare a questo giornale dell’intrapresa nazionale, un saggio e opportuno ammonimento: “La gatta frettolosa fece li micetti cechi”. Noi del Sole 24 Ore, con poetica ardente pazienza – così che si medita persino di mutare, nel gravoso frangente, il nome della testata in il Sole 48 Ore, in modo da permettere a tutti di muoversi con maggior calma e senza  ansia e fretta alcuna – ci muoviamo nello spirito delle indicazione fornite dal Presidente Napolitano al presidente Monti per primo: “Rinnovata responsabilità e coesione nazionale”. Coesione, oserei dire e al Paese proporre, anche redazionale, perché il fare presto mette a rischio non solo il futuro ottico della figliolanza della gatta dal ministro citata, ma ben altro. Come lo stesso mio predecessore, dottor Riotta, ha voluto significare raccontando di quando lui e Pirandello e Vittorini hanno lasciato la Sicilia: mica sono giunti a Roma in fretta e furia, ma con calma e con lento piede, naviglio o accelerato, non sulla Ferrari del dottor Cordero di Montezemolo. E ben più lunga della tratta Palermo-Roma risulta la Roma-Francoforte, e ancora con più calma necessita di essere percorsa: prenda, il presidente Monti, il vagone letto piuttosto che l’areo, chieda all’ammiraglio Di Paola se per caso vi siano rotte marine a tutt’oggi inesplorate, vi si rechi in macchina con il ministro Enzo Moavero Milanesi al volante – in quanto responsabile degli Affari europei, responsabilmente conosce statali, autostrade e autogrill continentali.
Arrivare è l’obiettivo. E arrivare lontano, come l’Italia merita. Ma si sa, fin dai giorni in cui il differenziale giocava a nostro favore: chi va piano e calmo va sano e va lontano. Al giornale abbiamo allegato un “Manuale anti panico” di grande utilità, ulteriore invito alla saggezza della calma: in valeriana veritas, oserei dire. Come vedete, vicino alla testata, è stampato un nostro slogan: “Aumentiamo lo spread della fiducia”. E’ il “batti cinque!” dell’impresa italiana. Lo abbiamo riprodotto su un grande striscione, ora appeso sulla facciata della nostra redazione. Dunque, ecco l’indicazione del Sole 24 Ore (presto 48): può andare molto male, ma anche molto bene. Perciò regolatevi così: state buoni, toccate ferro e tenete il piede sul freno. Siate calmi e affamati.

Il gigante dai piedi di argilla, di Mario Deaglio

Essendo figlia di un pastore luterano, e probabilmente buona conoscitrice della Bibbia, Angela Merkel farebbe bene a riflettere sul sogno raccontato dal re Nabucodonosor nel «libro di Daniele»: una grande e magnifica statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo e i piedi in parte d’argilla e in parte in ferro viene colpita proprio nei piedi da un masso che rotola giù dalla montagna. E la statua si sgretola subito in piccolissimi frammenti che vengono spazzati via dal vento.

Molti operatori economici stanno vivendo le lunghe e angosciose giornate finanziarie di questa settimana nella paura che l’Europa, e in particolare l’euro, che ne costituisce forse la migliore realizzazione, possa far la fine della statua di Nabucodonosor, ossia franare in poco tempo e quasi senza preavviso. Sempre più frequentemente li sfiora il sospetto che i piedi d’argilla non siano necessariamente rappresentati dalla Grecia e dagli altri inaffidabili Paesi «meridionali» ma si possano trovare invece nella stessa Germania e possano costituire la debolezza nascosta di quel gigante dalla testa d’oro che è l’Europa.

Si tratta di un gigante con poche forze, come si può constatare dagli sviluppi finanziari degli ultimi mesi.

Anche ieri, attorno al tavolo delle consultazioni di Strasburgo, si sono confrontate solo debolezze diverse. La debolezza francese derivante da una crescita, apparentemente inarrestabile, del debito pubblico che l’ha portato ad aumentare di circa un terzo (dal 60 all’80 per cento del prodotto interno) durante i quattro anni della crisi finanziaria; la debolezza di un’Italia soffocata da meccanismi inefficienti di decisione politica e di redistribuzione del reddito che, nell’ultimo decennio, hanno tarpato le ali a quasi tutte le iniziative di crescita; e infine la debolezza tedesca apparsa improvvisamente con aste finanziarie in cui non si riescono a collocare tutti i titoli pubblici.

Appena sei mesi fa, la Germania veniva gratificata del titolo di «locomotiva d’Europa» e sembrava aver trovato la ricetta per uscire dalla crisi. Ci si accorge ora che la locomotiva era in realtà un vagone, che era stata essa stessa trainata dalla ripresa mondiale. La Germania è infatti vissuta sulle esportazioni e non su un aumento ordinato e consistente dei consumi interni. E dopo avere all’incirca raggiunto il livello produttivo precedente la crisi, la locomotiva si è fermata con una frenata brusca e inattesa, con la disoccupazione che torna a crescere dopo due anni e gli ordini all’industria, specialmente dall’estero che tornano a diminuire.

Insieme con la disoccupazione, in Germania cresce da tempo l’inquietudine, come testimonia la lunga fila degli insuccessi nelle elezioni locali del partito del cancelliere o dei suoi alleati. E questo spiega il persistente rifiuto del cittadino medio - che ha ancora un ricordo lontano, ma vivido di un nonno o un prozio che è stato rovinato dall’inflazione degli Anni Trenta - di pensare in grande. Dopo aver sostenuto a lungo l’Unione Europea, con contributi finanziari superiori ai benefici immediati, assicurando così il proprio e l’altrui sviluppo, dopo avere incassato la riunificazione al prezzo di sostituire il marco con l’euro, la Germania ha smesso di avere progetti di respiro veramente ampio.

Si è ripiegata su se stessa, si sente probabilmente più tedesca e meno europea. Il tedesco è una delle poche lingue in cui la stessa parola («Schuld») significa indifferentemente «debito» e «colpa». Dietro al ricordo della grande inflazione affiora forse questa memoria ancora più profonda, per cui il debitore è un colpevole e un debitore a rischio di insolvenza è come un appestato. Forse così si contribuisce a spiegare l’atteggiamento non lineare della Germania nei confronti della Grecia, un Paese la cui insolvenza danneggerebbe fortemente le banche tedesche, e che pure la Germania esita a salvare, negando il suo assenso ad azioni incisive della Banca Centrale Europea.

Si potrà anche sostenere che Angela Merkel sia abile quanto il suo predecessore, Helmut Kohl, che riuscì a riunificare il paese. Non le mancano, infatti, decisione e capacità argomentativa ma non sembra esser dotata delle grandi visioni del futuro di Kohl e, prima di lui, di Adenauer, Ehrhard e altri cancellieri tedeschi. Preferisce rivedere, in maniera taccagna, i conti della spesa piuttosto che domandarsi perché si fa la spesa. Non le importa di pronunciare una raffica di «no», come ha fatto ieri sugli Eurobond, apparentemente senza una visione complessiva dei circuiti finanziari, senza rendersi conto che un leader europeo, come aspira a essere, deve tenere in serbo qualche sì. Deve indicare una strada percorribile e non predicare principi inflessibili.

C’è forse qualcosa di simbolico nel fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano sia arrivato ieri all’incontro di Strasburgo con cronometrica puntualità, mentre il suo predecessore aveva abituato i colleghi internazionali a mal sopportati ritardi. In ritardo, invece, è arrivato il cancelliere tedesco. Colpa, ahimè, di un guasto all’aereo: nemmeno l’efficientissima Germania è perfetta. Se Angela Merkel riuscirà a prendere coscienza delle imperfezioni tedesche, che i mercati in questi giorni le hanno pesantemente ricordato, forse c’è speranza per l’Europa.



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giovedì 24 novembre 2011

C'è una sola via d'uscita, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

LA BCE E IL DEBITO SOVRANO

Ieri i titoli di Stato austriaci a dieci anni rendevano oltre 1,6 punti percentuali più degli analoghi titoli tedeschi. L'Austria ha un debito inferiore di dieci punti a quello della Germania: nessuno quindi pensa che i suoi titoli siano più a rischio di quelli tedeschi. Quel differenziale riflette il timore che l'euro si spacchi e l'incertezza su che cosa accadrebbe all'Austria: adotterebbe il Deutsche Mark o ritornerebbe allo scellino? L'euro è sull'orlo dell'abisso.

L'incertezza sul futuro della moneta unica aumenta la volatilità dei mercati europei e induce i grandi investitori americani ad abbandonare investimenti in euro, fuggendo ora anche dai titoli tedeschi. Ieri l'asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino. Nel prossimo anno, nei Paesi dell'euro, scadono circa 500 miliardi di obbligazioni bancarie: se le banche non riuscissero a rifinanziarsi l'euro potrebbe non sopravvivere. I mercati temono che si finisca proprio lì.

A questo punto c'è un solo modo per salvare l'euro: un intervento forte della Bce. È una soluzione molto problematica, cui si è giunti a causa dell'irresponsabilità di governo dopo governo in parecchi Paesi europei, compreso il nostro. Ma a questo punto non vi è altra soluzione. Intervenire sui flussi, ad esempio cominciando a emettere eurobond, cioè titoli garantiti dall'Ue, anche se fosse possibile agirebbe troppo lentamente.

Bisogna intervenire sugli stock: agire sui flussi non basta più. La Bce può acquistare quantità illimitate di titoli riducendo la volatilità e riportando i rendimenti ai livelli pre-crisi. Non di tutti i Paesi, solo di quelli, come Italia e Spagna, che non sono insolventi. In realtà basterebbe che la Bce annunciasse l'intenzione di stabilizzare i rendimenti a un determinato livello: di acquisti veri e propri ne dovrebbe fare pochi.

Molti dicono che questo è il peccato originale dell'euro: non avere una banca centrale che si comporta come la Federal Reserve americana. Ma la differenza è che la Fed non compra i titoli emessi dagli Stati (dal Texas, o dalla California), solo quelli del governo federale. Non solo, ma la grande maggioranza degli Stati americani ha un vincolo di bilancio in pareggio. Titoli federali in Europa non esistono perché non esiste un ministro del Tesoro dell'Eurozona e i Paesi europei possono emettere debito a piacimento, senza tener conto dei costi per l'Unione nel suo complesso.

L'Ue, attraverso la Commissione, ha poteri esecutivi in due sole aree: la politica della concorrenza e quella monetaria. In ogni altra area le decisioni richiedono l'accordo dei governi. Per salvare l'euro occorre estendere i poteri esecutivi dell'Ue alla politica di bilancio, non alle singole misure o al mix fra spesa e imposte, che deve rimanere prerogativa dei parlamenti nazionali, ma ai conti pubblici aggregati: evoluzione del debito e saldi di bilancio. Certo, è una rivoluzione, e ci rendiamo conto che è necessario cambiare i trattati europei, ma a questo punto è la sola via per salvare l'euro e i 60 anni che abbiamo dedicato a costruire l'Europa.


mercoledì 23 novembre 2011

La lezione di Michelangelo, di Ralf Van Bühren


Due anni fa, il 21 novembre 2009, l’incontro di Benedetto XVI con gli artisti nella Cappella Sistina

Dagli inizi del XX secolo, il rapporto fra la Chiesa e l’arte contemporanea, è, in molti ambiti, teso e distaccato. Nel 1975 Papa Paolo VI constatò giustamente che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza alcun dubbio il dramma del nostro tempo». I motivi di questo problematico rapporto sono complessi e l’impressione è che procedano da entrambe le parti.

Oggi ci sono ancora molti cattolici ai quali mancano — come alla maggior parte dei loro contemporanei — una comprensione e un interesse veri verso le intenzioni estetiche di un’arte contemporanea che si presenta come di un genere radicalmente nuovo.Michelangelo, «Giudizio universale» (particolare) D’altro canto, a seguito alla progressiva secolarizzazione della società e della cultura, molti artisti d’avanguardia non hanno una formazione cristiana di base e, non di rado, neppure una disposizione personale ad affrontare il contenuto dei temi biblici e teologici.
Durante la prima metà del XX secolo la Chiesa si è sempre più confrontata con atteggiamenti di critica alla religione, e persino alla Chiesa stessa, da parte di artisti la cui vita contrastava con la professione della fede cristiana. I “negativismi”, la mancanza di senso e di orizzonti con cui tali artisti rappresentano l’uomo e il mondo, risultavano incompatibili con la visione positiva dell’uomo, pervasa di speranza, propria della Chiesa. L’arte moderna degli inizi del XX secolo costituiva una sfida estetica e spirituale, di fronte alla quale il magistero ecclesiastico da Pio XII a Giovanni XXIII reagì con prudenza.
Paolo VI, “il Papa del dialogo”, amava le arti, e soprattutto l’arte moderna. «La Chiesa ha bisogno di santi, lo sappiamo, ma essa ha anche bisogno di artisti bravi e capaci», disse nel 1967, «gli uni e gli altri, santi e artisti, sono testimoni dello spirito vivente di Cristo».
Proprio all’inizio del suo pontificato, nel 1964, invitò gli artisti a una messa nella Cappella Sistina. Nelle parole che pronunciò al termine della celebrazione liturgica insistette sull’intimo vincolo esistente fra arte e religione, e offrì agli artisti un’alleanza basata sull’amicizia.
Questa offerta avviò un cambiamento pastorale nel dialogo moderno fra l’arte e la Chiesa. In particolare, determinante fu l’invito a passare da un “accanto” tra Chiesa e arte, o addirittura da un “contro”, a un “lavorare con”.
Le parole di Paolo VI suscitarono entusiasmo in molti artisti. Alcuni artisti e mecenati inviarono al Papa, come risposta spontanea, opere d’arte che costituirono il nucleo per la formazione della Collezione d’arte religiosa moderna dei Musei Vaticani.
Inaugurata nel 1973, la collezione dimostra l’interesse della Chiesa per l’arte contemporanea “autonoma”, ossia non nata da un incarico per uno spazio sacro. Riunisce circa ottocento opere di circa 250 artisti di tutto il mondo. Documenta il modo soggettivo in cui gli autori si avvicinano autonomamente al messaggio cristiano e il loro sentimento religioso. Purtroppo la speranza espressa in diversi modi da Paolo VI di una «fioritura di una primavera nuova dell’arte religiosa postconciliare» non riuscì a realizzarsi.
Giovanni Paolo II continuò la riforma del suo predecessore. Nella sua prima enciclica, Redemptor hominis(1979), fece appello alla responsabilità che gli artisti hanno rispetto alla verità.
Per promuovere a livello della Chiesa universale il dialogo di uguaglianza fra la Chiesa e la cultura, nel 1982 fondò il Pontificio Consiglio della Cultura, sulla base della convinzione che «la sintesi fra cultura e fede non è solo un’esigenza della cultura, ma anche della fede». Fra il 1980 e il 1986 pronunciò a Monaco, Vienna, Bruxelles e Roma altrettanti discorsi programmatici alla presenza di artisti. Vi fece riferimento al dialogo degli artisti con la Chiesa in spirito di collaborazione e di responsabilità, come pure alla natura, all’oggetto e alla missione dell’arte — specialmente dell’arte cristiana — indicando l’analogia fra arte e fede.
Nel 1999 Giovanni Paolo II pubblicò la sua Lettera agli artisti.
In essa li invita la dialogo e alla cooperazione con la Chiesa, sottolinea la stretta sintesi fra arte e fede e indica la Sacra Scrittura come fonte principale d’ispirazione per l’arte cristiana. Con quella Lettera, il Papa riassunse l’insegnamento sull’arte che aveva formulato in quei venti anni e preparò il Giubileo degli artisti del 2000, a Roma, durante il quale pronunciò un messaggio sull’analogia fra arte e santità.
Alla messa di Paolo VI nella Cappella Sistina (1964) parteciparono quasi esclusivamente artisti italiani; nel 2009 Benedetto XVI ha invece allargato il circolo degli invitati.
C’erano cattolici e cristiani di altre confessioni, seguaci di religioni non cristiane, agnostici e atei; per questo motivo il Papa si limitò al discorso e alla benedizione finale. Come sottolineato in precedenza dal presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Gianfranco Ravasi, la scelta si è basata solo sulla qualità estetica e sull’apertura agli interrogativi esistenziali.
Il carattere dell’incontro con gli artisti corrisponde alle linee maestre del pontificato di Benedetto XVI. Come annunciato nel suo primo messaggio da Papa del 20 aprile 2005, desidera dare impulso al dialogo interreligioso e interculturale; e in questo contesto si situa il rapporto con gli artisti, che deve tener «conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali», come ha detto nel suo discorso nella cappella Sistina nel 2009.
Il punto centrale del discorso del 21 novembre 2009 è stato l’armonia fra arte e fede, fra estetica ed etica. Benedetto XVI è così tornato sugli aspetti centrali della pastorale pontificia degli artisti seguita al concilio Vaticano II.
Il cristianesimo «fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza», e questo è il fondamento storico della prosecuzione dell’amicizia già auspicata.
Tutto il testo del discorso sembra un commento teologico all’affresco del Giudizio universale, dovuto al genio di Michelangelo.
Il Papa ha interpretato la sua «drammatica bellezza» come un «annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo». Fra bellezza e speranza esiste un vincolo profondo, ha sottolineato il Papa, e ha citato il Messaggio agli Artisti letto nel 1965 al termine e a nome del concilio Vaticano II: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini. Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo».
Basandosi su citazioni di grandi pensatori e artisti, il Papa ha realizzato un canto alla bellezza ispirato alla metafisica platonico-agostiniana e alla Sacra Scrittura. Come dice Platone, la bellezza produce nell’uomo una salutare scossa, lo fa uscire da se stesso, gli apre gli occhi del cuore e dello spirito, lo eleva. Il Papa ha distinto la bellezza illusoria dalla bellezza autentica che «schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé». Ha poi elogiato la via pulchritudinis, il cammino della bellezza nella natura e nell’arte, come una possibile «via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio». In tal modo riprendeva il tema del suo discorso nell’udienza di mercoledì 18 novembre 2009, ossia «l’incontro tra estetica e fede» e «l’armonia tra fede e arte».
«L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità». In questo contesto, Benedetto XVI ha citato Herman Hesse — «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio» — e Simone Weil: «In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa». Tuttavia oggi «nel mondo moderno degli interessi», la bellezza non è «amata e custodita nemmeno dalla religione» ha detto, il Papa citando l’“estetica teologica” di Hans Urs von Balthasar.
Dinanzi a questa constatazione, Benedetto XVI ha indicato la Sacra Scrittura come fonte d’ispirazione per l’arte. Prova dell’affinità fra «il percorso di fede e l’itinerario artistico» è l’«incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli» della Bibbia. Riprendendo la Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti, Benedetto XVI si è chiesto: «L’arte ha bisogno della Chiesa?». Nel porsi questa domanda, ha invitato gli artisti a trovare «nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel grande codice che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione».
Il Papa ha concluso il suo discorso con un appello alla responsabilità degli artisti. Come «custodi della bellezza», sono responsabili della sua comunicazione. In particolare nei momenti di crisi, possono infondere coraggio e speranza. «Grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Un momento dell’incontro del Papa con gli artistiSiate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza!».
Benedetto XVI ha poi esortato gli artisti a non aver paura di «confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti». Citando sant’Agostino, in quello che sembra quasi un commento anticipato della scena del Giudizio universale, e facendo riferimento all’affresco di Michelangelo, ha rivolto lo sguardo al destino ultimo dell’uomo: «La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».
Nella Cappella Sistina, testimonianza di grande arte e di fede profonda, queste parole di riconciliazione sono risultate convincenti. «Lo scenario era magnifico» ha dichiarato dopo l’incontro il regista e cineasta tedesco Philip Gröning. «Era un simbolo del dialogo millenario fra l’arte e la Chiesa, e dell’origine congiunta dell’arte e della religione. È stato un grande gesto quello di invitarci tutti lì, per dire: la Chiesa ha bisogno di artisti che ricerchino il trascendente».

Viaggio nella grande crisi globale. E-book e webstory spiegano il perchè



Crisi e tensione tra gli operatori di borsa in tutto il mondo

I paesi europei stentano
a rimborsare i loro debiti, gli Stati Uniti hanno raggiunto il limite oltre il quale indebitarsi diventerà almeno impensabile.
Il mondo occidentale sarà in grado di reggere  l’attacco della speculazione? Un e-book e una webstory per capire cosa è successo

Risalire alle origini del grande crac mondiale, che sta cambiando il senso della vita di tutti noi. «La Stampa» ha provato a ripercorrere questa vicenda attraverso un ebook - un libro elettronico scaricabile via internet, che poi può essere letto su vari dispositivi o anche, volendo, stampato - e una web story, un documentario. Entrambi i documenti provano a mettere in fila gli avvenimenti che hanno portato il mondo occidentale come lo conosciamo sull’orlo del fallimento per capirne le cause, le modalità e le possibili soluzioni alla crisi finanziaria globale.

In Italia sappiamo che andremo in pensione più tardi e che ci aspetta una serie di sacrifici gravosi: bisogna capire se davvero ne vale la pena. Europa e America stanno lavorando senza sosta su questo problema: e se i governi europei sono in affanno di fronte alla prospettiva di imporre ai loro elettori una cura dimagrante a base di lacrime e sangue, sul fronte americano il presidente Barack Obama non è meno in difficoltà. I suoi elettori lo hanno visto come il presidente della rinascita, lui a mandato iniziato s’è accorto di doverli informare che alla rinascita bisogna anteporre una lunga e dolorosa stagione di sacrifici. Come coniugarli con la democrazia, sapendo che raramente gli elettori premiano chi impone cure di austerità? L’ebook e la webstory rispondono a queste domande.
MARCO SODANO

Sul web il documentario dal crac americano alle tempeste in Borsa
Internet ci ha abituato ai tempi rapidi, ai messaggi di 140 battute di Twitter, ai video brevi e a effetto. Ma non solo. L’era digitale offre anche straordinarie possibilità a chi ama gli approfondimenti. Stanno tornando in voga per esempio i «long articles», le lunghe inchieste che si sviluppano per molte pagine, un genere in cui sono maestri i periodici americani: l’ebook li ha fatti riscoprire e il genere vive ora una seconda giovinezza. Anche sul fronte dei video è possibile raccontare una storia con calma, in profondità. È quello che «La Stampa» ha cominciato a fare in questi mesi lanciando le proprie webstories. Veri e propri documentari per il web, affidati al racconto delle firme del giornale.

La prima era stata a settembre: «Never Forget», un’inchiesta/memoriale in occasione del decimo anniversario dell’attacco all’America dell’11/9. Per capire cosa era successo all’epoca e come è cambiato il mondo dopo il crollo delle Torri Gemelle. Da oggi sulla sezione speciale del sito de «La Stampa» dedicata alle webstories (www.lastampa.it/webstories) è disponibile anche la versione narrata del «Viaggio nella grande crisi».

È un viaggio in venti minuti a cura di Marco Sodano, realizzato da «La Stampa» in collaborazione con l’agenzia giornalistica «TMNews», che accompagna e approfondisce quello dell’ebook: il crac dei mutui subprime americani, il crollo di Lehman Brothers, le turbolenze sui mercati, i timori di recessione, le proteste di piazza a Wall Street. Un racconto introdotto dal direttore Mario Calabresi e sviluppato tra New York e Milano da editorialisti, corrispondenti e reporter finanziari.
MARCO BARDAZZI

Istruzioni per l'uso: un modo nuovo per leggere la storia
Clicca, scarica, leggi: con gli ebook è nata una nuova esperienza di lettura, favorita dalla diffusione di tavolette, lettori digitali e «smartphone» di ultima generazione. Con il «Viaggio nella grande crisi» si apre una collana di libri digitali che «La Stampa» proporrà in collaborazione con la casa editrice «40k» (www.40k.it) specializzata in ebook. Una serie di librerie online offrono da oggi il volume a prezzi che partono da 2,99 euro: tutte le opzioni per l’acquisto, le informazioni e le istruzioni sono disponibili sul sito della «Stampa» all’indirizzo www.lastampa.it/ebook. Il «Viaggio» è aperto dal direttore della «Stampa», Mario Calabresi, e offre i racconti e le analisi di una serie di firme del giornale: Deaglio, Guerrera, Lepri, Riotta, Alfieri, Mastrobuoni e Paolucci. L’editore «40k» pubblica ebook in diverse lingue ed è specializzato nei formati brevi. Propone autori di narrativa come Bruce Sterling, Mike Resnick, Cory Doctorow e l'australiana Kaaron Warren, e nomi importanti della saggistica come Derrick De Kerckhove e Peter Ludlow.